Prospettive demoniache sul fascismo in "Quer pasticciaccio brutto de via Merulana" di Gadda e in "M – il figlio del secolo" di Wright
- Redazione
- Apr 7
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Potrebbe sembrare azzardato accomunare Carlo Emilio Gadda, uno degli scrittori del Novecento italiano più originali e oggi meno noti al grande pubblico, e la recentissima serie M – Il figlio del secolo, che ha calamitato l’attenzione di spettatori e critica all’inizio di questo 2025. Eppure è proprio ciò che mi accingo a fare. Mi riferirò in particolare a Quer Pasticciaccio brutto de via Merulana, (Garzanti, 1957, ripubblicato da Adelphi nel 2018) romanzo che racchiude in sé molta della riflessione gaddiana sul mondo e sulla società italiana tra le due guerre.
Roma, 1927. In un condominio in via Merulana, a distanza di pochi giorni, si susseguono un furto di gioielli e un omicidio. Entrambe le indagini impegnano il commissario Ingravallo, eroe-filosofo gaddiano di cui scopriremo, fin dalle prime pagine, un forte coinvolgimento emotivo in uno dei due casi.
È forse superfluo riportare in dettaglio la storia, anzi la Storia, viste le vicende narrate, di M – Il figlio del secolo, (regia di Joe Wright, 2025, tratta dal libro M. Il figlio del secolo di Antonio Scurati, Garzanti, 2018) che ripercorre l’ascesa del fascismo fino al discorso in Parlamento del l 3 gennaio 1925, in cui Mussolini assume su di sé la responsabilità dell’omicidio Matteotti.
A parte la prossimità cronologica, in apparenza, nulla sembrerebbe accomunare il romanzo e la serie. Da una parte un giallo scritto nel dopoguerra, dall’altra una serie contemporanea tratta da un libro che lo stesso Scurati ha definito un «romanzo documentario», in cui i fatti storici vengono presentati con gli strumenti del romanzo. Proverò a dimostrare che un tratto in comune tra i due esiste, e può fornire un punto di vista interessante sul ventennio fascista.
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Analisi dei personaggi del Pasticciaccio
In Quer Pasticciaccio brutto de via Merulana, Gadda ci presenta un’indagine che non va a buon fine. Dei due crimini seguiti del commissario Ingravallo, solo uno viene ricondotto esplicitamente al colpevole: il furto. L’omicidio efferato di Liliana Balducci, evidentemente passionale, non trova soluzione, mentre i gioielli della contessa Menegazzi vengono ritrovati, sì, mai dai carabinieri del maresciallo Santarella, con cui Ingravallo instaura un rapporto di collaborazione venato da un’implicita competizione.

Nonostante la presentazione del commissario ne evidenzi le eccellenti capacità intuitive nella soluzione dei casi, i capitoli successivi dimostrano la sua cecità: egli si intestardisce nel sostenere a oltranza la colpevolezza di Valdarena, primo indiziato e cugino della vittima, fin quando le testimonianze non lo scagionano definitivamente.
È evidente che nelle indagini qualcosa non funziona. Il romanzo si chiude bruscamente con l’interrogatorio di Assunta, domestica di Liliana, che afferma con veemenza la sua innocenza; un’illuminazione non precisata di Ingravallo prelude, forse, a una risoluzione del caso, ma Gadda propende per l’apertura del finale. Un’eventuale individuazione dell’assassino rimane nel campo delle ipotesi.
Per capire il senso di questa conclusione dobbiamo fare un passo indietro ed esaminare il modo in cui sono connotati molti dei personaggi del romanzo. Possiamo soffermarci su Zamira, tenutaria di una bottega nelle campagne romane al contempo sartoria, rudimentale locanda e bordello. Alcune delle ragazze che vi lavorano saranno direttamente coinvolte nella narrazione. Di Zamira si sottolinea il ruolo di indovina, chiromante, cartomante, la sua esperienza con esorcismi, malocchi e incantesimi; a un certo punto, la si definisce addirittura «maga orientale di prima classe». Ciò si unisce a una descrizione fisica che insiste sull’aspetto ripugnante e lascivo dell’anziana.
Un'altra descrizione di cui tener conto è quella di Virginia, una delle ragazze della sua bottega, che aveva in precedenza svolto il ruolo di domestica a casa di Liliana. Don Lorenzo, confidente dell’uccisa, durante una dialogo con Ingravallo descrive la giovane senza giri di parole: «una diavola de corallo», la cui bellezza procace va di pari passo con la malizia e l’irrequietezza.
Il prete racconterà poi la presenza di una forte tensione erotica tra domestica e signora, culminata in un episodio di violenza fisica da parte di Virginia con annesse minacce all’altra donna: «una vorta o l’antra me te magno». Fatto rilevante perché sappiamo che Gadda, nella prima redazione e nei suoi appunti, aveva chiaramente identificato in Virginia la colpevole del delitto. Una strega, l’altra diavola. Ma non sono gli unici personaggi a cui sono rivolti simili appellativi.
Camilla Mattonari, presso la cui casa viene rinvenuta la refurtiva, e la cugina Lavinia, sono viste dal brigadiere Pestalozzi come «streghe isteriche». La stessa Liliana, seppur in un sogno del brigadiere, viene assimilata a questa schiera demoniaca, nella figura onirica della contessa Circia: il suo sorriso ricorda allo stesso tempo il profondo squarcio al collo della vittima e la bocca perturbante di Zamira, descritta in precedenza. Ma nemmeno quello che dovrebbe essere l’eroe della storia è esente da questo accomunamento infernale.
La descrizione di Ingravallo muove nella stessa direzione delle altre osservate finora, con un lessico comune quasi totalmente derivato dall’Inferno dantesco: si insiste fortemente sul nero «piceo», di pece, dei suoi capelli, e lo stesso colore viene spesso usato per descrivere i suoi atteggiamenti e i suoi stati d’animo. Addirittura una descrizione del commissario nell’ultimo capitolo ce lo descrive in un’inquietante prossimità con il Lucifero del canto XXXIV dell’Inferno: la sua implicazione con il demoniaco sarebbe perfino più profonda a quella degli altri personaggi. Per concludere il quadro, appellativi con connotazione simile sono riferiti anche ad altri rappresentanti delle forze dell’ordine.
Cos’è, quindi, la pece che accomuna e invischia tutti i personaggi? Qual è il referente storico a cui dobbiamo attribuire questi simboli? In due parole: il fascismo. È la società tutta dell’Italia fascista a tingersi di sfumature infernali, dalle vittime ai carnefici, dai protettori dell’ordine ai trasgressori. È una società in cui la soluzione del crimine corrisponderebbe comunque al trionfo del male, poiché è l’ordine stesso a rappresentare il male e a perpetrarlo; la mancata individuazione dell’assassino risulta pienamente giustificata.
Lo stesso Mussolini risulta direttamente citato o alluso in varie occasioni, sempre con la tendenza di Gadda alla deformazione espressiva. Il titolo che gli viene più spesso attribuito è di «Buce» o «Bucio», con evidente riferimento alla sua mimica facciale esasperata, richiamando ancora una volta il dettaglio della bocca di Zamira.
Perché Gadda esprime la sua opposizione al fascismo in questa maniera emotiva, quasi risentita, e non per mezzo di una presa di posizione o di una condanna diretta? La risposta va rinvenuta nel vissuto dell’autore: Gadda fu, e convintamente, un fascista. Si iscrisse al movimento prima che prendesse il potere e sostenne il regime, pur non impegnandosi attivamente in politica, con articoli propagandistici. L’antifascismo di Gadda, dunque, non può che essere la risentita delusione di un uomo che vi aveva intravisto una speranza: quella di una realizzazione dei propri ideali patriottici di matrice risorgimentale. Svanita questa possibilità, catapultato nel mondo in rapida trasformazione del Dopoguerra, allo scrittore milanese non resta che uno sguardo retrospettivo di amara disillusione.
«E in corpo par vivo ancor di sopra»
Per quanto riguarda invece M – Il figlio del secolo, non è tanto sulla serie nel suo complesso che mi voglio soffermare quanto sul modo in cui le vicende ci sono presentate. Seguire dalla prospettiva intima della serie Mussolini, considerando il suo carico di nefandezze e mostruosità, chiaramente esibite, è stato un compito niente affatto facile. L’ho trovato, a tratti, fortemente disturbante. È stato come vivere un incubo, uno di quelli in cui si è immobilizzati e disperatamente si vede accadere ciò che più temiamo, senza poter fare nulla per impedirlo. Una sottilissima nausea, come un rumore di sottofondo a volte indistinguibile, ma sempre presente, ha accompagnato la mia visione.
Dopo averla conclusa non ho potuto fare a meno di sentirmi sporco, macchiato, calato in un’atmosfera stantia e opprimente. Sarà stato anche l’accoppiamento perturbante tra la forma, quella del prodotto di intrattenimento, e il contenuto, tragicamente storico, a generare in me un effetto simile. Nello sviluppo della trama si assiste alla completa estinzione di quei già fiochi residui di umanità presenti in Mussolini, sempre più isolato e incapace di rapportarsi con i suoi cari e i suoi sostenitori, sempre più narcisisticamente ossessionato dalla sua immagine e dalla sua investitura politica.
Esteriormente vivo e nel pieno del suo potere, interiormente Mussolini è già morto, come accade ai dannati del Cocito nell’Inferno dantesco. Non è per semplice suggestione che mi sono avvalso di questo paragone. Come nel caso del Pasticciaccio, è una prospettiva demoniaca che viene usata per rappresentare dall’interno le vicende del personaggio. Tale prospettiva viene convogliata con diverse strategie espressive: una prima e più evidente è la scelta di mantenere, a livello visivo, una dominanza di tinte fosche, con interni spesso scarsamente illuminati e forti contrasti. Le onnipresenti camicie nere sembrano quindi fondersi con le ombre degli ambienti che le hanno, fisicamente e metaforicamente, generate.
Un altro espediente è la frequentissima rottura della quarta parete da parte di Mussolini: nell’ottima – quanto impegnativa – interpretazione di Luca Marinelli, egli si rivolge direttamente al pubblico, gli rivolge sguardi ammiccanti e sorrisi untuosi, mettendolo a parte dei propri nefandi intenti, del proprio cinismo, della sua spregiudicatezza nel cambiare di volta in volta idea e posizione pur di soddisfare la sua brama di potere.
Il fondatore del fascismo sembra volerci dire, con una retorica da diavolo tentatore: «Siete tutti coinvolti perché siete vili come me, volete in fondo le stesse cose che voglio io; se non fossi stato così abile a comprendere la natura umana, come avrei potuto soggiogare un paese intero per vent’anni?». Alcune scene, in particolare, convogliano questa prospettiva.
All’inizio del secondo episodio Mussolini è in carcere. In un angusto ambiente interno i detenuti passeggiano in cerchio, con un’ovvia citazione ad Arancia Meccanica e alla Ronda dei carcerati di Van Gogh. Mussolini avvia un surreale monologo sulla sconfitta alle elezioni guardando direttamente in macchina. L’inquadratura inclinata, dal basso, sembra relegarci in una prospettiva infera, diabolica, come se egli si stesse rivolgendo non a noi ma alle forze del male che nelle profondità albergano.
Nel terzo episodio Mussolini firma un accordo di pacificazione con i leader dei socialisti. Il loro delegato, tuttavia, rifiuta platealmente la stretta di mano con lui. Di sera, dopo il fatto, Mussolini cammina con il braccio destro Cesare Rossi sotto le arcate del teatro di Marcello, dimostrando un forte risentimento personale per l’accaduto. Al campo medio segue improvvisamente una mezza figura che stringe sui due, con un angolo olandese accentuatissimo. «Me ne frego delle strette di mano. Quando saremo al potere le aboliremo.» «Come si farà?» «Come si farà? Così.» Il futuro dittatore esegue per la prima volta il saluto romano. Un episodio apparentemente insignificante come una mancata stretta di mano genera quello che diventerà il più noto gesto distintivo del fascismo.
Al di là dell’affidabilità storica di questa ricostruzione, l’inquadratura esige che ci soffermiamo sul perturbante di quanto sta accadendo, con un messaggio ben chiaro: qui si sta facendo la storia, qui è l’origine di un male che si perpetuerà e che vi riguarda ancora. Dovete accettarlo.
L’ultima scena su cui mi soffermo appartiene al quinto episodio. Mussolini è al governo e ha bisogno del sostegno dei cattolici. Essendo osteggiato da Don Luigi Sturzo, fondatore e segretario del Partito Popolare, si rivolge direttamente alle alte gerarchie ecclesiastiche e viene ricevuto da un cardinale. Questa volta è il politico ad essere in basso, mentre il prelato siede su uno scranno in cima a un’alta scalinata.
Mentre assistiamo all’instaurarsi di un accondiscendenza della Chiesa verso il fascismo, a fare da sfondo, in maniera del tutto surrealista, campeggiano due immagini: dietro il cardinale un ingrandimento della Vocazione di San Matteo di Caravaggio e dietro Mussolini del Davide con la testa di Golia dello stesso artista. I forti chiaroscuri delle due tele esprimono perfettamente l’atmosfera di degrado morale che permea tutta la serie e alcune scene in particolare come questa: le alte gerarchie della Chiesa antepongono il vantaggio politico alle considerazioni morali di un accomodamento al fascismo, e la macabra testa mozzata di Golia è sinistramente accostata a quella dell’ormai Presidente del Consiglio mentre rivela al religioso di aver sempre avuto una profonda fede: quella in sé stesso e nel suo potere arbitrario.
E adesso?
Cosa possiamo trattenere da questo confronto? Sia Gadda che l’adattamento di Wright basano la loro forza sulla vicinanza al fascismo: nel primo caso per motivi biografici, nel secondo per una precisa scelta registica. Seppur nella diversità degli strumenti utilizzati in entrambi, quando si tratta di rendere in maniera rappresentativa il punto di vista interno al mondo fascista, si ricorre alla deformazione e all’espressionismo; il demoniaco, l’infernale e il diabolico sono i campi metaforici e simbolici più utilizzati. Ciò non permette di istituire legami diretti tra Gadda e Wright o Gadda e Scurati; tuttavia, forse possiamo ricavarne qualcosa per il nostro presente.
Opere così distanti convergono nel rendere l’internità al fascismo un’esperienza degradante, angosciante, perturbante; ciò può forse suggerirci di non sottovalutare l’avanzare minaccioso delle estreme destre nel mondo. Come ammonisce lo stesso Mussolini, parlando al pubblico all’inizio della serie: «Guardatevi attorno. Siamo ancora tra voi.» Vista la testimonianza trasmessaci da chi ha vissuto o rappresentato dall’interno quel mondo, abbiamo tutti i motivi per opporci senza indugio al suo ritorno.
Nota bibliografica
L’interpretazione del Pasticciaccio contenuta nel primo paragrafo è una versione ridotta e semplificata di quella presentata da Cristina Savettieri, professoressa di Letteratura italiana contemporanea presso l’Università di Pisa, nel saggio Il Pasticciaccio e la logica simmetrica, in «Allegoria, per uno studio materialistico della letteratura», n. 81, G. B. Palumbo Editore, Palermo, 2020. Ringrazio la prof.ssa per avermene gentilmente concesso l’utilizzo.
Per il secondo paragrafo ho colto uno spunto presente nella recensione alla serie di Elisa Torsiello su «Everyeye.it»: M - Il figlio del secolo Recensione: è già una delle serie migliori del 2025, https://serial.everyeye.it/articoli/recensione-m-figlio-secolo-serie-migliori-2025-64408.html (url consultato per l’ultima volta il 18 marzo 2025). Il titolo corrisponde all’ultimo verso del canto XXXIII dell’Inferno.

Autore: Roberto Loschiavo
Roberto Loschiavo è nato. Adesso studia Italianistica ed è appassionato di scrittura, fotografia e teatro. Lo trovate qui: @robyloschiavo.
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