Succede a volte – rare volte – di comprare per caso un libro, attratti dal titolo, dalla copertina, dal nome sconosciuto dell’autore, di leggere quel libro e rimanerci sotto. Nel senso che le parole del libro in questione sono un incantesimo in grado di soggiogare; parole tra le quali il naufragare sembra dolce. E allora, avendo voglia di tornare a provare gli effetti dell’incantesimo, non si può far altro che comprare un altro libro di quello stesso autore, poi un altro e un altro ancora, con grande turbamento della PostePay Evolution che proprio non capisce chi sia l’essere umano il cui nome compare ormai settimanalmente nell’elenco delle spese, superando il brand di pasta preferito o addirittura la marca di tabacco di fiducia. Io sono rimasto sotto molte volte, l’ultima è stata con un anziano signore peruviano dal riporto spettacolare che si chiama Mario Vargas Llosa. Nonostante avesse vinto il Nobel per la letteratura nel 2010, non lo conoscevo quando vidi sullo scaffale della libreria il suo La città e i cani, tre anni fa o poco più. Mi piacque forse il titolo, comprai il romanzo e lo lessi.
Credo di aver letto quasi tutto di questo autore adesso e, per fortuna per le mie finanze, l’incantesimo sta per rompersi perché Mario Vargas Llosa ha scritto il suo ultimo romanzo, Le dedico il mio silenzio (Einaudi 2024, traduzione di Federica Niola; il titolo originale Le dedico mi silencio è del 2023), cui seguirà soltanto un altro libro, l’ultimo in assoluto, che sarà, a quanto lo stesso autore promette, un saggio su Jean-Paul Sartre.
Vargas Llosa ci parla della musica peruviana, del vals criollo, di oscuri suonatori di cajón e di un chitarrista prodigioso inseguito come s’insegue un sogno; ma al contempo ragiona sul problema dell’impegno politico nella professione dell’intellettuale. La conclusione cui arriva è in linea con l’idea che torna insistente in tutte le sue interviste e conferenze più recenti: la sconfitta, la spoliazione delle armi ideali dell’arte di fronte all’imperfezione brutale della realtà. Se un tempo era forse possibile cambiare il mondo con la narrativa, ora al massimo si può aspirare a mostrare ciò che dovrebbe essere e che probabilmente non sarà mai – e a una certa età è forse normale pensarla così. La cosa straordinaria è che scorre tra le pagine del romanzo delle armi deposte un vitalismo narrativo, affabulatorio che rende appropriata la classica frase per descrivere le opere belle: da leggere tutto d’un fiato. Come si vede, l’incantesimo di cui sono vittima mi fa esprimere con toni declamatori, spero non esagerati.
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"Le dedico il mio silenzio": inseguendo un’idea scappando dai ratti
Il protagonista di Le dedico il mio silenzio è Toño Azpilcueta, gran cultore della musica peruviana. Rimasto sempre ai margini della sfera intellettuale del suo paese, è invidioso di quelli che ce l’hanno fatta: i membri di un'élite culturale sonnolenta alla quale pure anela d’appartenere – in segreto, covando la speranza con vergogna –, nonostante le cocenti delusioni di un passato accademico finito male. Ha una fobia irrazionale per i ratti, certe volte li sente zampettare sulla pelle, sotto i vestiti… ovunque.
I vari articoletti che Toño scrive per sostentarsi sono attraversati da un’idea a dir poco romantica e a dir giusto utopica: il vals peruviano, genere musicale le cui radici si perdono tra XIX e XX secolo nei callejones di Lima (stradine di fango tra le baracche), sarebbe l’esempio culturale da seguire per raggiungere l’unificazione morale del paese. Perché proprio il vals? Perché in esso s’accordano tutte le componenti altrimenti dissonanti della società peruviana. Sarebbe davvero molto bello, però siamo nel Perù atterrito dalle scorribande di Sendero Luminoso, alle soglie della dittatura di Fujimori, e insomma non tira proprio aria di buoni sentimenti. Nessuno prende sul serio il nostro Toño Azpilcueta.
La scintilla che accende la storia, e che riaccende la passione del protagonista per l’impegno, è l’esibizione di un chitarrista eccezionale, capace di creare silenzi di stupore belli quanto la sua musica. A questa esibizione Toño Azpilcueta riesce ad assistere grazie all’invito di un conoscente, uno di quelli che ce l’hanno fatta, uno dell’élite. Il chitarrista si chiama Lalo Molfino (il cognome è italiano perché un prete d’origini italiane l’aveva trovato, ancora in fasce, esposto in una discarica). Lalo, dopo l’epifanico concerto, diventerà l’ossessione di Toño. Per via di quel concerto, l’intellettuale riprenderà a scrivere il libro sulla storia della musica peruviana in cui stabilirà le coordinate delle sue teorie sul rinnovamento morale del paese.
Lalo Molfino muore poco tempo dopo quella esibizione e si trasforma così nell’oggetto di una ricostruzione malinconica in cui i frammenti di una vita triste si mescolano con le sublimi tirate di Toño sulla musica tradizionale. La quête diviene interiore, plasma la scrittura, Toño scrive il libro e riesce a pubblicarlo con un piccolo editore. All’inizio vende poco o nulla ma poi, all'improvviso, arriva il successo; bisogna stampare più copie, la tipografia deve ingranare la marcia per superare le proprie capacità produttive. Toño diviene popolare. Il rapporto con la sua famiglia migliora, così come il rapporto con la donna che segretamente ama. Gli viene offerta una cattedra all’università, quella di Attività peruviane, quella dei suoi sogni infranti, e lui accetta. Lo invitano anche in Cile a parlare del suo libro, delle sue idee sul Perù che forse, magari, si spera possano dare un futuro migliore a tutta l’America Latina, tutti uniti finalmente dopo anni di povertà materiale e sociale grazie al criollismo, grazie alla musica, grazie ai magnifici vals.
A questo punto si insinua nella storia la necessità della caduta dell’eroe e la disgrazia si abbatte su Toño. Comincia a correggere le bozze di stampa del libro in maniera maniacale, aggiunge parti, esagera le sue posizioni, e ad ogni edizione quel libro cambia, s’allunga. Ma Toño non è mai soddisfatto e continua follemente a scrivere, a prendere appunti. La sua ossessiva ricerca della perfezione va di pari passo con l’inasprimento della paura irrazionale di essere circondato e aggredito dai ratti. Infine, qualcosa si rompe e quell’idea che aveva intrigato molti perde d’interesse. Sendero Luminoso uccide per le strade e la riforma morale proposta da Toño pare ormai una forma incomprensibile di solipsismo. Ebbene, addio alla cattedra all’università, addio ai giri di conferenze; l’unica cosa che rimane, dopo che anche il rapporto con quella donna segretamente amata si intiepidisce, è la fobia dei ratti, la sensazione che i ratti gli entrino nei vestiti producendo un prurito spaventoso che disintegra i nervi del protagonista.
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In Le dedico il mio silenzio Vargas Llosa – che ha sempre giocato da fuoriclasse con la struttura del romanzo – produce un andamento non lineare ma piuttosto binario. Articola un duetto in cui si alternano capitoli che narrano la storia della caduta del protagonista, a capitoli che riproducono i saggi scritti dallo stesso Toño sulle tradizioni sonore di Lima e sulla storia della musica criolla. I due fuochi geografici del romanzo sono Lima, dove c’è Toño, e Puerto Eten, paesino costiero sperduto nel Nord del Perù, dove comincia la vita di Lalo Molfino e termina la ricerca del suo inseguitore.
La profonda passione di Vargas Llosa per la musica peruviana, in particolare per il genere del vals, è la cifra del romanzo. Tra i numerosi chitarristi, cajonisti e cantanti citati, si può scoprire della musica interessante da ascoltare e anche bella da suonare, in caso qualcuno volesse emulare Lalo e i suoi compari. In effetti, si potrebbero quasi leggere le sezioni saggistiche come un’operetta a parte in cui lo scrittore riflette sull’essenza della cultura peruviana attraverso il commento dei testi di antiche canzoni popolari, ricostruendo anche la storia dei personaggi che quelle canzoni le hanno composte o rese celebri. C’è dello studio, insomma, a monte di queste pagine, c’è la voglia di raccontare qualcosa di bello sul Perù, e c’è infine un po’ di nostalgia, come in tanti testi di vals.
Il tempo passa, le idee cambiano
Toño Azpilcueta è il tipo di personaggio in cui l’impegno politico e l’esperienza estetica convivono in una sintesi indistricabile che assume le tinte di un’ossessione morale disperata, infusa dall’egocentrismo e votata al fallimento. Questa stessa sintesi è stata, al principio, il nucleo della carriera intellettuale di Vargas Llosa. Con il personaggio di Azpilcueta traccia una sorta di allegoria del suo sentire più profondo come scrittore peruviano, o meglio latino americano, a lungo affascinato dalla funzione rivoluzionaria della letteratura.
Il portavoce più rumoroso della letteratura engagé fu, negli anni ’50 e nei primi anni ’60 del secolo scorso, il parigino Jean-Paul Sartre. E non è dunque un caso se nella nota dell’autore alla fine del romanzo leggiamo:
“[…] Adesso mi piacerebbe scrivere un saggio su Sartre, che è stato il mio maestro da giovane. Sarà l’ultima cosa che scriverò”.
Finire come si è cominciato, insomma. Ma non è solo il gusto per la circolarità che induce Vargas Llosa a dedicare il suo ultimo libro a Sartre. Più volte, in interviste, conversazioni pubbliche o articoli, lo scrittore ha avuto modo di ricostruire il suo iniziale amore per l’opera del filosofo francese. Ne ammirava la forza nell’impegno politico, la volontà di cambiare il mondo attraverso la letteratura, le paoline esortazioni a seguirlo lungo quel cammino. Il giovane scrittore peruviano emigrato in Europa voleva produrre qualcosa che fosse bello e allo stesso tempo profondamente intricato con la realtà del suo paese.
Ma poi il tempo passa, le cose succedono, le idee cambiano. Quest’ultimo romanzo va a braccetto con un libro di qualche anno fa che s’intitola Tra Sartre e Camus, una raccolta di articoli scritti da Vargas Llosa negli anni in cui commentava da Parigi il dibattito tra i due pensatori sulla questione dell’impegno politico degli intellettuali. L’acme della querelle, dal punto di vista del giovane peruviano, è il cambio di rotta di Sartre che nel 1964 ci ripensa e dice che no, la letteratura non può cambiare nulla, bisogna rimboccarsi le maniche e cambiare le cose con i fatti, con l’azione sociale. Vargas Llosa rinnega allora Sartre, lo considera un traditore, e al tempo stesso si modera nelle sue posizioni e si avvicina alle idee di Camus, senza smettere di credere del tutto nel potere demiurgico della letteratura che, se non può essere rivoluzionario, può almeno essere il potere in grado di far percepire attraverso la bellezza di un romanzo tutte le storture, le pecche del mondo vero. Ma, ancora, il tempo passa, le cose succedono, le idee cambiano. Vargas Llosa a un certo punto si è pure candidato come presidente del Perù, appoggiato da una coalizione di centro-destra, sfidando Fujimori e venendo sconfitto. Aveva in effetti deciso di mettere le mani in pasta per cambiare le cose; dopo la sconfitta elettorale per molti anni sceglierà l’esilio, starà lontano dal Perù.
Lalo Molfino allora, lo sfuggente chitarrista nato in una discarica a cui la morte non ha dato il tempo di dimostrare la profondità del suo talento, è la stinta idea dell’impegno inseguita per una vita da molti, durante il ‘900? Oppure il chitarrista che ammutolisce con la sua musica muore perché rappresenta il bello ideale, il discorso perfetto dell’arte che non ha la tempra per guadagnarsi un proprio spazio nel mondo vero, quello in cui la forza gravitazionale e le contingenze sociali rendono la vita pesante? Forse entrambe, forse nessuna delle due – viene in mente Caparezza quando con la voce di Filippo Argenti canta in faccia al Sommo, “Le tue terzine sono carta straccia, / le mie cinquine sulla tua faccia / lasciano il segno”.
Comunque, il libro è bello. Per chi conoscesse già l’autore è un buon modo per continuare o chiudere il cerchio, per chi non lo conoscesse è una scusa per iniziare a leggerlo. Ora vediamo che dice in quello su Sartre e poi basta.

Autore: Simone Massara
Nato a Messina, cresciuto in Calabria, salito a Roma per la legge del galleggiamento dei corpi meridionali, piano piano arriverà in Islanda. Gli piacciono i romanzi, alcune poesie e suona la chitarra.
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