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"Gomorra" di Roberto Saviano: una lettura diventata scontro

Writer: RedazioneRedazione

Questo articolo è troppo piccolo per contenere due Roberti allo stesso tempo. Uno dei due dovrà cedere il passo. Lui: Saviano, io: nessuno. È stato teatro dello scontro il suo primo libro e best-seller, Gomorra (Mondadori, 2006).


Quella che sto per raccontare è la lotta che io, uno studente di lettere moderne qualunque, ho dovuto condurre sul testo; non per arrivare a capirlo ma per accettarlo, per assecondarlo, per tollerare i mezzi con cui vuole trasmettere la sua verità. Questa lettura ha determinato, per me, uno sforzo non indifferente.


Prima di entrare nel dettaglio – o meglio, nel ring – è opportuno precisare le circostanze che hanno condotto a questo match. La storia che sto per raccontare inizia molto lontano.


L'articolo è suddiviso in:



L’universo di Gomorra

Chi è interessato alla letteratura contemporanea italiana sa chi è Roberto Saviano e cosa è Gomorra. Rispettivamente uno degli scrittori italiani più famosi e venduti degli anni Duemila, con svariate traduzioni all’estero, e l’opera che lo ha consacrato ad intellettuale di successo, oltre a porlo sotto scorta per le minacce ricevute da esponenti della criminalità.

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Copertina di Gomorra, Mondadori, prima ed. 2006

Gomorra ha poi ispirato tutto un suo immaginario romanzesco non letterario, inaugurato dal film di Matteo Garrone nel 2008 e proseguito con la serie omonima, in onda e in streaming dal ’14 al ’21,  e con un altro film: L’immortale di Marco d’Amore, uno dei principali attori e poi anche regista della serie stessa.


2008-2011

Quando il film venne distribuito nelle sale avevo otto anni. Erano gli anni della Crisi, di Berlusconi; altri tempi. Gli anni di quando la mattina a colazione al tg c’erano le notizie sullo spread ed io, un po’ inconsciamente, un po’ sadicamente, speravo che si alzasse più possibile.


Senza aver mai letto il libro o visto il film, sapevo già di cosa parlava. Ne avevo sentito parlare abbastanza in tv. Mi balenavano in mente le immagini di quei ragazzi rachitici in mutande con in mano i fucili automatici, mentre sparavano in acqua, in un parossismo di potere. Vedevo palazzoni popolari e fatiscenti, ricordavo – o forse immagino adesso di ricordare – dei miei compagni di classe dell’epoca, che mimavano il gesto del fucile con le mani e dicevano qualcosa che suonava così: “come Gomorra, come quelli di Gomorra”.


In prima media andai in gita a Napoli. La memoria non è di grande supporto; ne conservo solo alcuni frammenti. Un viale lungo, ampio e degradante al mare, in una mattina di sole; Capodimonte; un momento in cui percorrevamo una strada in autobus, forse sul lungomare, e guardavo il paesaggio quando… plaf!


Dal marciapiede, un ragazzino aveva lanciato un gingillo gommoso e appiccicoso verso il finestrino, a forma di mano; uno di quei giocattoli da due soldi che puntavano il loro fascino sulla viscidità e sul ribrezzo, che non ho mai trovato interessanti né divertenti. Il coso si appiccicò proprio davanti alla mia faccia, sconvolta; vidi quelle altre parvenze lì sotto sghignazzare per poi scomparire, insieme alla ventosa staccata dal moto indifferente dell’autobus.


Episodio che, seppur innocente, mi lasciò la sensazione di un pericolo annidato dietro la città, dietro il solemarecuore e le sfogliatelle, come se il mosaico di Alessandro e Dario – che pure ebbi occasione di vedere – si fosse sfaldato completamente, lasciando intravedere un mondo sottostante, minaccioso e dotato di immenso potere: Gomorra, per l’appunto. Quest’ultima similitudine, in realtà, mi si è formata in testa solo adesso che rievoco il fatterello; ma deriva dalle sensazioni e dalle situazioni che associo in effetti a quel giorno.


2020

Passano più di dieci anni. Estate del 2020. Sere di uscite notturne non più controllate, via libera, finalmente il coprifuoco è finito. Alleluia. È andato tutto bene. È stata la prima estate in cui ho condotto una vita di relazioni umane attive. Capitava che fossi pronto per uscire in anticipo, o che non avessi voglia di prepararmi per il quotidiano rito sociale nella solita piazza.


Mio padre nel frattempo guardava la tv in salotto, con solo le immagini a dare luce alla stanza. Più giorni a settimana davano proprio Gomorra, la serie. Mi fermavo allora a guardare, in maniera disorganica. A volte distrattamente, con un occhio sullo schermo del telefono e uno sull’altro; a volte con più attenzione all’azione e ai personaggi.


Ricordo sparatorie, le Vele, i soliti palazzoni popolari generici. Ricordo scooter, parcheggi di notte, imboscate. Ricordo qualche faccia, tante pistole, scambi di denaro e sostanze, frasi per me incomprensibili. L’ansia per la socialità imminente si sovrapponeva a quella dei personaggi, alla concitazione degli atti, delle alleanze, dei tradimenti. Si respirava un’aria di tensione e precarietà, tutto e niente poteva succedere da un momento all’altro.


Ricordo una scena in particolare, evidentemente una delle poche che ho seguito con discreta attenzione. I due camorristi, uno di fronte all’altro, davanti alla cappelletta di un cimitero, dopo il funerale di un parente o di un caro amico dei due. Uno maturo e con gli occhiali, l’Altro pelato, lo sguardo duro e implacabile. Alla fine Uno – non ricordo realmente quale – tira fuori una pistola e fredda l’Altro: primo piano di corpo steso a terra e sangue, chiusura di episodio e forse anche di stagione.


Ci sono rimasto male. Tradito anche Lui da Lui? Dopo tutto quello che avevano fatto – e che in gran parte non avevo visto – insieme? Mi balena un altro pensiero: è morto un camorrista, mica un eroe. È giusto empatizzare in questo modo? Ci si aspetterebbe forse un’altra fine per una vita scellerata? Dopo ore e ore di puntate, non si rischia forse di instaurare un legame affettivo con il Male? A me erano bastati quei pochi spezzoni intravisti per caso, una sera, prima di uscire nella sana movida; è stato però forse un problema solo mio, un eccesso della mia empatia


2024: la lotta

Ultimo salto. Eccoci arrivati al tempo dello scontro. Circa un mese fa inizio a leggere Gomorra in quanto oggetto di studio di un esame universitario. Giorni prima, però, guardo il film. Un mio amico mi preannuncia che consiste in alcune storie brevi tratte dal libro.


Una visione piacevole, sia esteticamente che narrativamente. Riconosco i due smilzi dalle fattezze. Apprezzo l’intento di narrare la camorra dei piani bassi, dal punto di vista di chi ha poco e nulla da perdere o di chi si muove sui ponti protesi tra legalità e illegalità. È con animo sereno che mi approccio alla lettura.


Ed è così che ricevo il primo pugno, proprio sullo sterno, quando maggiormente avevo allontanato da me il sospetto di riceverlo. Mi lascia senza fiato. È che Gomorra non è un romanzo. Non è una raccolta di racconti. È altro. Cosa? Difficile definirlo. Cerco di capirlo con gli occhi strabuzzati, piegato in due. Quel che più lucidamente mi viene da dire è che questo libro è il punto di vista di Saviano sulla camorra, basato su fatti e dati reali.


Un lavoro encomiabile per la mole di informazioni riportare e la volontà di considerare anche gli aspetti meno conosciuti dell’universo camorristico. Non saprei trovare un disegno organizzato nella struttura del libro. I fatti si susseguono disposti in paragrafi non sempre ben relati, con salti a volte non proprio sicuri tra un argomento e l’altro, e i vari camorristi e argomenti affrontati in maniera superficiale tornano spesso in passi successivi, in cui diventano protagonisti della dissertazione.


Nemmeno il tempo di assestare un colpo in risposta, o di memorizzare la sua tattica per prevenirla, che ne ricevo un altro dritto dritto sui denti. La lingua. La lingua che trasmette questo mondo criminale non ha nulla degli aggraziati salotti proustiani che tanto sono tenuti in conto nelle Facoltà di Lettere. Ed io che avevo imparato ormai ad ammirare, in questi ambienti, la delicatezza e l’efficacia del bello stile…  Ma il mondo, forse, parla un altro linguaggio.


Una lingua diretta. Concisa, implacabile. Una lingua che vede e che sa. La stessa lingua dei jingle pubblicitari in rete e in tv che sono lì per te. Per comprarti. «Forza. lo so che adesso che te ne ho parlato ne hai bisogno. Compra.» Una lingua a cui non so come approcciarmi, teso tra il voler ascoltare ciò che ha da dirmi e il voler riscrivere tutto da capo: dovrei parafrasare.


La sintassi procede per frammenti, per piccole frasi semplici. Leggerle è stato per me faticoso come mangiare una melagrana, in cui ogni grano ha la sua piccola quantità di succo, e il breve piacere della sua dolcezza viene superato dalla fatica di cavarlo fuori dal corpo principale. Anche le metafore e le similitudini, luoghi in cui i nostri grandi Vati tiravano fuori il meglio del nostro linguaggio, sono spesso ridotte a semplice luogo dell’esagerazione, dell’accostamento ad elementi bassi e volgari, senza nulla aggiungere al discorso.


Però forse sto iniziando a capire come combatte questo temibile avversario. Sto capendo le regole del suo gioco. Posso schivare i ganci e gli uppercut, sto anzi per coglierlo a guardia abbassata… E invece ricevo un calcio dietro alla gamba destra. Mi riduce ginocchioni a terra. Ancora una volta non so come reagire. Non appena stavo iniziando a prevederlo ha cambiato sport. Uno dei più grossi problemi nel mio approccio a Gomorra è stato Saviano; o meglio, la sua onnipresenza nel testo.


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Roberto Saviano, foto di Martin Kraft, MJK 38800 Roberto Saviano (Berlinale 2019), licenza CC BY-SA 4.0

Saviano descrive, Saviano giudica, Saviano è anche protagonista. Ci sono disseminati in tutto il libro dei piccoli episodi che egli racconta in prima persona, in cui contrabbanda, entra in case occupate da commando camorristici, sfugge a orde di zombie-eroinomani. Il richiamo del romanzo, in quello che pure romanzo non dovrebbe essere, è forte.


Mi ci vuole poco a mettere in dubbio la veridicità di questi racconti; con loro, salta nella mia testa tutto l’impianto del libro. Come faccio a credere ai dati sulla camorra, che pure sembrerebbero veritieri, se fusi a questi episodi improbabili in un groviglio inscindibile? Chi è questo io che si racconta con una voce “collettiva”, un po’ come i rapper quando nelle loro canzoni parlano dei crimini che (non) hanno commesso? Questa lettura ha senso?


Epilogo

Non sono più in grado di rispondere. Vorrei chiedere pietà ma non ne ho la forza; non mi viene concessa. Ricevo un doppio schiaffo sulle orecchie; tutto diventa un ronzio assordante, non posso più capire nulla.


Rivedo me in attesa di uscire di casa nell’estate di quattro anni fa. Apro il portone e ci sono i miei due amici: i famosi ragazzi con i mitra in mano, il volto tirato, in mutande. Del resto fa caldo, usciremo così. Mi guardo e sono anche io come loro, con un fucile automatico e seminudo. Possiamo farlo perché siamo i più forti. La criminalità è fortissima, è un sistema che funziona, è invincibile. È tutto quello che mi rimane di questo terribile combattimento.


L’illusione si dissolve, ricordo un post di Saviano su Instagram sulle elezione americane di cui ho condiviso pienamente il contenuto e l’intenzione. Crollo al suolo supino, teatralmente, le braccia spalancate. KO. Ha vinto lui. 


Consiglierei la lettura di questo libro? Difficile dirlo. Posso affermare con una certa tranquillità che non mi ha appassionato, che non corrisponde alla mia idea di letteratura, ma il suo intento di denuncia della criminalità non può in alcun modo essere frainteso né biasimato. La forma in cui è stato scritto, invece, è rappresentativa di alcune direzioni intraprese dalla letteratura italiana “d’autore” a cavallo tra la fine degli anni Novanta e l’inizio del nuovo millennio.


 

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Autore: Roberto Loschiavo


Roberto Loschiavo è nato. Adesso studia Italianistica ed è appassionato, tra le altre cose, di fotografia e teatro. Per critiche, insulti, minacce: @robyloschiavo.

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